Gran finale a UJ18 con Gregory Porter e Melody Gardot | Umbria Jazz
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Gran finale a UJ18 con Gregory Porter e Melody Gardot

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«Smile and maybe tomorrow you’ll see the sun come shining through for you». Magari sarà un caso, ma quando Gregory Porter intona «Smile» all’Arena smette di colpo di piovere; potenza della musica. Domenica al Santa Giuliana di Perugia è andato in scena il gran finale di Umbria Jazz con due concerti di ottimo livello. Il primo è stato quello di Melody Gardot, già ospite del festival in passato (una sola all’Arena, le altre al teatro Morlacchi), mentre il secondo ha visto sul palco dell’Arena due grandi protagonisti: Gregory Porter, già da qualche tempo beniamino del pubblico, e i 65 elementi dell’Umbria jazz Orchestra diretta per l’occasione da Vince Mendoza, che ha scritto gli arrangiamenti dei pezzi di Nat King Cole, il cantante al quale Porter ha dedicato l’ultimo disco («Nat King Cole and me», registrato con la  London Studio Orchestra diretta da Mendoza).
Per lui c’erano già state ovazioni anni fa al Morlacchi e poi all’Arena, quando cantò alcuni pezzi con l’orchestra di Wynton Marsalis. Al Santa Giuliana stavolta c’è un’altra orchestra, quella di UJ che di anno in anno sta ottenendo un ruolo sempre più centrale all’interno del festival. Tutta la serata, bis a parte, è dedicata alla musica di Nat King Cole: Porter dal palco ricorda in più di un’occasione l’importanza che ha avuto per lui la musica di Cole, ascoltata fin dalla tenera età. Quando Porter nacque, il cantante di Montgomery era morto (purtroppo prematuramente) già da qualche anno lasciando però una traccia indelebile nella cultura popolare americana: Cole raggiunse nel corso della carriera una straordinaria popolarità, riuscendo ad esempio a essere il primo afroamericano a ottenere uno show tutto suo su uno dei principali network televisivi del paese.
Il che, in anni difficilissimi, non lo risparmiò certo dalla violenza razziale: il prato della sua nuova bella casa (in un quartiere della upper class bianca) fu accuratamente bruciato per formare la scritta «negro», mentre uno dei suoi cani fu ucciso, tanto per ricordare qualche episodio. Il direttore Mendoza accompagna Porter e i suoi musicisti in un viaggio che inizia subito benissimo con «Mona Lisa», «But beautiful» e «Nature boy». C’è poco da girarci intorno: Porter è una delle più grandi voci in circolazione al mondo e anche domenica ha dato prova non solo e non tanto di potenza quanto, sulle note di Cole, della capacità di reinventare la musica di quest’ultimo viaggiando lungo gli arrangiamenti (splendidi) di Mendoza. Lungo la serata scorrono «Quizas, quizas, quizas», «When love was king», «I wonder who my daddy is» (emotivamente coinvolgente, dato che Porter in più di un’occasione ha spiegato di aver avuto un padre assente), «L-O-V-E» e tante altre, senza l’impressione di un omaggio stanco e banale.
A un certo punto comincia a cadere anche una pioggerella fastidiosa, che non scoraggia però centinaia di persone rimaste ad ascoltare fino all’ultimo; le stesse che hanno tributato a Porter e orchestra una standing ovation. Nel frattempo Porter, che per mole e potenza ricorda una sorta di Zeus nero, aveva fatto smettere di piovere sulle note di «Smile». Il bis è ad alto tasso di energia e coinvolgimento, visto che Porter sceglie la sua «Liquid spirit» con tutto il pubblico a battere le mani a tempo e a improvvisare con la sua voce; una sorta di rito spiritual collettivo. Tolto il vestito e il cappello giallo con cui è stata notata per tutto il giorno a Perugia (due fan hanno stazionato per buona parte della giornata davanti al Brufani pur di incrociarla) e lasciato da parte l’amatissimo chihuahua, Melody Gardot dopo aver infilato pantaloni neri, un soprabito dello stesso colore e inforcati gli occhiali da sole (conseguenza dello spaventoso incidente di cui è stata vittima anni fa), è salita sul palco dell’Arena cantando, in una sorta di presagio, «The Rain».
L’intero set è dominato dalle luci morbide, atmosfere sinuose e dai tanti brani che l’hanno portata a essere una delle cantanti jazz più apprezzate (l’ultimo album, a parte quello dal vivo «Live in Europe» pubblicato quest’anno è «Currency of man», del 2015): «Baby I’m a fool» la canta imbracciando la chitarra acustica, e poi «If the stars are mine», «So long» e «Goodbye», «Mornig sun». Nella sua band anche due violini, una viola e un violoncello che lavorano per costruire un sound molto intenso. Dal palco, scusandosi per non conoscere la lingua, pronuncia qualche parola in italiano («Va bene così?») chiede al pubblico dopo un brano, prima di elogiare l’atmosfera di un festival «arrivato al 45esimo anno di età, incredibile. Qui si vede musica dappertutto e c’è un’atmosfera speciale». E lei ricambia riuscendo a toccare le corde giuste emozionando la platea. Dopo un ottimo inizio con Quincy Jones, un gran finale.
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