“Two Island”, una produzione originale apre Umbria Jazz Spring 1 a Terni il 27 aprile
“Two Islands”
PAOLO FRESU, tromba & flicorno
GIOVANNI SOLLIMA, violoncello
ORCHESTRA DA CAMERA DI PERUGIA
(In collaborazione con Amici della Musica di Perugia)
Umbria Jazz Spring 1
Venerdì 27 aprile
ore 21,00 Santuario di San Francesco
Una produzione originale, una sinergia tra Umbria Jazz e gli Amici della Musica di Perugia, si intitola “Two Islands” ed è una nuova collaborazione tra Paolo Fresu e l’Orchestra da camera di Perugia, che l’anno scorso realizzarono, con Daniele di Bonaventura, la rilettura del Laudario di Cortona. Quest’anno in “Two Islands”, con il trombettista sardo e l’orchestra perugina ci sarà uno straordinario artista come Giovanni Sollima, compositore e violoncellista di fama mondiale per le sue originali innovazioni.
«Two Islands», Sardegna e Sicilia, le due isole del Mare Nostrumche legano due degli strumentisti più dinamici di oggi, che rifiutano entrambi quelle distinzioni pretestuose tra «jazz» e «classico»: il trombettista logudorese Paolo Fresue il violoncellista palermitano Giovanni Sollima. Vi è grande attesa per il primo incontro pubblico – finora inedito – tra i due, incontro sollecitato dall’Orchestrada Camera di Perugia, che si è esibita con ambedue negli ultimi diciotto mesi: il felicissimo «Laudario di Cortona» con il primo – nato da una prima collaborazione tra Umbria Jazz e la Sagra Musicale Umbra – e pagine di Boccherini e dello stesso violoncellista-compositore con il secondo. Il concerto di questa sera rinnova una collaborazione tra Umbria Jazz e gli Amici della Musica, che è stata esplorata negli anni ’90 con appuntamenti memorabili alla Chiesa di San Francesco al Prato e ai Giardini del Frontone.
Sardegna e Sicilia, due crocevia, porti di approdo da millenni, terre alle quali sono radicate i nostri musicisti in modo viscerale. Miti, leggende, ritualità e tradizioni che si intrecciano in modo inestricabile con gli elementi e con la natura: “l’acqua che scorre” per Fresu; l’albero dal quale nasce la voce del suo strumento per Sollima (When we were Trees).
Il programma, in fase di definizione fino all’ultimo, verrà scelto da pagine elaborate da entrambi singolarmente, che nel caso di Fresu trovano ispirazione nel libro «Passavamo sulla terra leggeri» dello scrittore e poeta cagliaritano Sergio Atzeni, morto incidentalmente in mare all’età di soli 43 anni. Ad as,Is kal’i, El, M’u, T’arros: sono i titoli immaginosi dello scrittore – per personaggi, toponimi leggendari (insediamenti come il nuragico Tiscali e il fenicio Tharros) e stati d’animo passionali – che ci ricordano l’identità dei s’ard come i fantasiosi «danzatori delle stelle», dei naufraghi di terra.
Isolani come migranti … Ulisse che ritorna a Itaca tra mille sofferenze dopo aver espugnato Troia; Enea, il nemico dardano cacciato da Troia, che vaga negli stessi anni per il Mediterraneo, passando per Creta, per la costa albanese davanti a Corfù, per Sicilia e Cartagine, prima di sbarcare nel Latium. Entrambi respingono amori dall’aria sospetta – l’infida Circe da un lato, la bistrattata Didone dall’altro – e entrambi scampano ai pericoli terribili di Scilla e Cariddi. L’isolano eternamente irrequieto, che parte per i continenti, per poi rincasare, ripartire nuovamente e ritornare ancora una volta …
Giovanni Sollima ci porta verso lidi più vicini nel tempo, isole-limbo ancora più cariche di travaglio: l’EllisIslandnewyorkese, che accolse più di 12 milioni di emigrati europei tra il 1892 e il 1954; e la sua controparte dei nostri giorni, Lampedusa, nota con pena a tutti. Altri suoi brani riflettono su momenti storici dell’isola sicula: il regno di Federico II– per alcuni controverso, per altri illuminato – nel Duecento, il lampo musicale di Alessandro Scarlatti– «emigrato» anch’egli – nel Seicento, e il furto scandaloso nel 1969, di matrice mafiosa, della Nativitàdel Caravaggio, tela mai più ritrovata.
«Non è stato semplice capire da dove partire: la Sicilia, per come la sento io, è un continuo affiorare di segnali, dati, strati […] Ogni volta la percepisco in modo diverso, come qualcosa da decodificare, rileggere. È anche una bella sensazione […] Affrontare un racconto è complesso: letteratura, poesia, arte, visioni, storia, radici, politica, rivolte, cibo, odori, sogni, rabbia, mare, cemento, alberi, vulcano, la percezione di vivere la Sicilia come una barca così vicina alla terraferma da scontrarsi e – al tempo stesso – allontanarsi, alla deriva. E la fuga. E poi il ritorno. E i flussi migratori. E tanto altro ancora… »
Non sappiamo ancora – né vogliamosapere con anticipo – come si articolerà la serata, se ci sarà un confronto diretto, un dialogo movimentato tra i due strumentisti. Una cosa è certa, ascolteremo musiche – senza barriere – come poesie orali, improvvisazioni spontanee, inflessioni che sono diverse ogni volta, che non si ripetono mai. Le contese animate del Chjam’e rispondidi una terza isola sorella, la Corsica.
È mai esistita un’età dell’oro? E un «logu de oro»? O sono dei miraggi della nostra memoria collettiva? Lasciamo la penultima parola al narratore del romanzo di Sergio Atzeni:
«Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is [la luna]. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti».
L’ultima parola, invece, è tratta dal diario «La spartenza» di Tommaso Bordonaro, contadino semianalfabeta di Bolognetta, paesino del palermitano, emigrato in America nel 1947 – assieme alla moglie e a cinque figli maschi – all’età di 38 anni, le cui traversie ispirò un lavoro teatrale di Sollima (Ellis Island, con libretto di Roberto Alajmo) nel 2002:
«Allora ho cominciato a pensare per più presto andarmene e lasciare l’Italia e la Sicilia, la mia terra nativa. Io deciso assoluto, perché io per i figli potere imparare qualche professione e qualche mestiere e non essere schiavo a lavoro e alla miseria […] Dolorosa e straziande è stata la spartenza […] Giorno 23 il mare è sereno, noi alba di giorno 26 siamo andati tutti all’aria e non si vede altro che acqua e cielo e vento e neve da tirare la faccia e così si ritorna di nuovo giù con lo spasimo di tanti cuore che si desiderava la vista dell’America e che ancora non si vede niente. Alle ore 21,30 minuti finalmente una notte del 27 abiamo arrivati quasi alla statua e che si vede una bellezza, le navi chi va chi viene una veduta mai vista […]
Io e mia moglie andavamo in giro quasi mi sono messo allavorare per primo campagnolo in America al cimitero dei giurei a Lodaio, a pulire le piante piantare fiori addrizzare le tompe, lavorare con la cariola sepelire qualche cadavere, scavare qualche fosso e sempre queste lavori un po’ pesanti, agiutare strade insomma sempre un lavoro campestro. Sabato e domenica lavorare in città affare scavi di fognature per acquidotte e per l’acqua da bere, in corso della settimana al cimitero, 3 ore opure 4 alla fabbrica dei maccarone la perla, e non potevo mai fare sufficiente per mantenere la famiglia un po’ discreta e tante volte subire delle mortificazione».
Fiaccola come simbolo di libertà da un lato, il peso di svilimento come ricompensa amara dall’altro. Anche questi sono tratti del carattere solitario dell’isolano. Una Sardegna rocciosa, una Sicilia vulcanica. Insieme.
Andrew Starling