E i Massive Attack battono anche la pioggia... | Umbria Jazz
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E i Massive Attack battono anche la pioggia…

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Il primo attacco massiccio è quello dell’acqua, caduta puntualmente all’inizio dello spettacolo mentre bagliori e fulmini accendono il cielo, fondendosi con i visual e le luci che arrivano dal palco. Lunedì è stata a Umbria Jazz 2018 la grande notte dei Massive Attack, planati all’Arena del Santa Giuliana per la gioia degli oltre settemila paganti; un numero di spettatori che colloca la notte di lunedì tra le serate top della ventennale storia dell’Arena. Robert del Naja, Grant “Daddy G” Marshall e soci (al Santa Giuliana non manca Horace Andy) arrivano a Perugia con il loro tour a 30 anni dalla fondazione di un gruppo che ha scritto pagine tutte nuove della storia della musica. Con loro il trio scozzese degli Young Fathers, già tre dischi alle spalle e una collaborazione con il gruppo di Bristol che va avanti da qualche anno (vedi il singolo «Voodoo is in my blood»). Sono loro poco dopo le 20, in anticipo rispetto a quanto preventivato a causa dell’allerta meteo, ad aprire lo show, con una miscela elettronica e dura di hip-hop, rap e r’n’b.
Poi dopo quasi un’ora intorno alle 21.40, il tempo di far entrare le tante persone in fila, arrivano i Massive Attack: 90 minuti esatti di spettacolo e 15 pezzi in scaletta, da «Hymn of the big wheel» cantata da Horace Andy al terzo bis, «Splitting the atom». In mezzo il breve ma violento acquazzone che non ha spaventato troppo il pubblico dell’Arena, arrivato con ombrelli, felpe e k-way; quelli senza, hanno comprato felpe e giacchetti, hanno cercato riparo sotto i tendoni oppure hanno ballato tranquillamente sotto l’acqua. Tuoni e fulmini si mescolano ai bassi e alle luci e l’impatto, per chi è rimasto in Arena, è davvero massiccio. Dopo la partenza che ha portato il Santa Giuliana indietro fino ai tempi di «Blue line», si passa a «Mezzanine» con «Risingson», poi «United Snakes», «Ritual spirit», «Girl I love you», «Eurochild». Sul maxischermo a led un bombardamento vertiginoso di immagini che richiede attenzione allo spettatore.
Alle spalle del gruppo scorrono lunghe sequenze di zero e uno – quasi a testimoniare l’infinità possibilità delle cose – bandiere di paesi, nomi di siti culturali ormai distrutti dalla guerra, i loghi di molte compagnie petrolifere, titoli di news che assomigliano molto alla propaganda, altri che sono quelli pescati dal clickbaiting quotidiano dei siti. A un certo punto, Robert del Naja collega il suo smartphone al maxischermo e si atteggia come quelli che affollano le timeline di Facebook con i loro selfie, prima che il suo volto perda forma, si smonti e poi si si rimonti con quelli di altri. La ferocia delle percussioni e i messaggi danno un certo mood scuro al concerto che prosegue con «Future proof», «Voodoo is in my blod» e «Way up here» con gli Young Fathers, l’immortale «Angel» e la rilettura di «Inertia creeps», «Safe from harm» e «Unfinished sympathy» con Deborah Miller e «Take it there». Alla fine, con «Splitting the atom», la tensione si scioglie: «Siamo tutti in questo insieme» è ciò che appare sullo schermo mentre scorrono immagini di uomini e donne da ogni angolo del mondo. Uno show dove a colpire sono la grande professionalità, l’impegno politico, la cura di tutti gli aspetti (in primis i visual); peccato solo per coloro che stavano ai due lati del palco, dai quali non si vedeva per intero lo schermo.
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